BGE 139 II 7 vom 17. Januar 2013

Dossiernummer: 8C_448/2012

Datum: 17. Januar 2013

Artikelreferenzen:  Art. 6 CEDU, Art. 91 CPC, Art. 152 CPC, Art. 3a LL, Art. 6 LL, Art. 40 LL, Art. 337 CO, Art. 5 Cost., Art. 29 Cost., Art. 95 LTF, Art. 99 LTF, Art. 105 LTF , Art. 26 ArGV 3, Art. 26 Abs. 1 ArGV 3, art. 328b CO, Art. 26 Abs. 2 ArGV 3, art. 29 cpv. 2 Cost., Art. 29 Abs. 1 BV, art. 4 LPD, art. 152 CPC, Art. 6 Ziff. 1 EMRK, art. 5 e 9 Cost., art. 105 LTF, art. 99 LTF, art. 99 cpv. 1 LTF, art. 95 LTF, art. 6 cpv. 4 LL, art. 40 LL, art. 3a LL, art. 6 CEDU, art. 152 cpv. 2 CPC, art. 90-91 CPC, art. 337 CO

BGE referenzen:  126 I 97, 127 I 54, 130 II 425, 131 I 272, 134 I 153, 136 V 117, 137 I 218, 138 IV 169, 141 I 1, 143 I 37, 143 II 443 , 130 II 425, 127 I 54, 126 I 97, 136 V 117, 131 I 272, 138 IV 169, 137 I 218, 134 I 153, 131 I 272, 138 IV 169, 137 I 218, 134 I 153

Quelle: bger.ch

Urteilskopf

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2. Estratto della sentenza della I Corte di diritto sociale nella causa Consorzio protezione civile Z. contro X. (ricorso in materia di diritto pubblico)
8C_448/2012 del 17 gennaio 2013

Regeste

Art. 6 ArG ; Art. 26 ArGV 3 ; Art. 29 Abs. 1 BV ; Art. 6 Ziff. 1 EMRK ; Einsatz eines Überwachungsprogrammes zur Kontrolle der Informatikaktivitäten eines Arbeitnehmers; Verwertbarkeit unrechtmässig erlangter Beweismittel und Interessenabwägung; Entlassung.
Der verdeckte Einsatz eines Überwachungsprogrammes zwecks Bestätigung des Verdachts, ein Arbeitnehmer missbrauche die ihm im Informatikbereich zur Verfügung gestellten Mittel für dienstfremde Zwecke, ist unzulässig ( Art. 26 Abs. 1 ArGV 3 ) oder zumindest unverhältnismässig ( Art. 26 Abs. 2 ArGV 3 ; E. 5.5-5.5.4). Abwägung zwischen öffentlichem Interesse an der Wahrheitsfindung und privatem Interesse des Arbeitnehmers am Schutz seiner Persönlichkeit (E. 6). Mit der Verneinung der Verwertbarkeit eines auf diese Weise widerrechtlich erlangten Beweismittels fällt die Grundlage für eine Entlassung dahin (E. 7).

Sachverhalt ab Seite 8

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A. X. è entrato alle dipendenze del Consorzio protezione civile Z. nel 1985. Nel corso degli anni ha fatto carriera fino ad assumere la funzione di capo istruttore e di sostituto comandante.
Il 23 settembre 2009, il patrocinatore di X. si è rivolto alla delegazione consortile - l'organo esecutivo del consorzio - per lamentarsi del fatto che il personal computer del suo assistito era stato preso in consegna da terze persone per non meglio precisate verifiche. Nel contempo preannunciava che non avrebbe riconosciuto le risultanze del controllo. Durante un incontro del 23 novembre seguente, la delegazione consortile ha informato X. di avere riscontrato delle irregolarità nell'adempimento dei suoi doveri professionali e più precisamente di avere accertato un uso improprio nell'impiego - per fini privati o comunque estranei alla sua funzione - dei mezzi informatici messigli a disposizione. Il consorzio aveva fatto installare di nascosto un rilevatore automatico di dati (Spector Pro) nel personal computer dell'interessato dal 15 giugno al 22 settembre 2009. Da tale verifica era emerso che il funzionario, su un totale di 8'297 minuti, aveva dedicato 5'863 minuti (pari al 70,6 % del tempo passato al computer, rispettivamente al 22,76 % del tempo totale di lavoro che, oltre alle attività in ufficio, non solo al computer, comprendeva anche interventi all'esterno) ad attività private o comunque estranee alla sua funzione, quali lettura di quotidiani online, consultazione di social networks, visione di programmi televisivi e altri filmati online
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(in parte anche a carattere pornografico), esecuzione di giochi e di operazioni di e-banking, prenotazione di viaggi, invio di messaggi personali di posta elettronica e allestimento di documenti privati per le sue attività politiche e ricreative (cfr. conclusioni della perizia A. del 29 ottobre 2009). Il 1° dicembre 2009 la delegazione consortile ha aperto nei confronti di X. un'inchiesta amministrativa per violazione intenzionale e ripetuta dei propri doveri professionali e per ripetuta infrazione alla direttiva interna del 5 marzo 2009 concernente l'uso degli strumenti informatici e di telecomunicazione. Confrontato con queste accuse, l'interessato ha contestato le modalità di assunzione della prova peritale e ha contrapposto un proprio conteggio del tempo di utilizzo del personal computer.
Chiusa l'inchiesta amministrativa, la delegazione consortile ha licenziato con effetto immediato X. privandolo del diritto allo stipendio (decisione del 22 febbraio 2010). Adito su ricorso dell'interessato, il Consiglio di Stato del Cantone Ticino ha confermato il provvedimento (decisione del 5 ottobre 2010). L'esecutivo cantonale ha ritenuto che la perizia informatica poteva essere presa in considerazione anche qualora fosse stata assunta in violazione delle norme sulla protezione dei dati e della personalità siccome l'interesse all'accertamento della verità materiale doveva prevalere su quello dell'interessato alla tutela della sua sfera privata. Ha inoltre concluso che per la gravità delle infrazioni rimproverategli come pure per il ruolo ricoperto dall'interessato, il quale già nel 2003 era stato oggetto di un ammonimento (per altre mancanze minori: mancato intervento nei confronti di alcuni addetti alla sicurezza del carnevale che portavano abusivamente l'uniforme della protezione civile, dispensa inopportuna di un milite della protezione civile da un corso di ripetizione e uso del cellulare di servizio durante le assenze per malattia o per vacanze), la fiducia riposta dal datore di lavoro nel proprio funzionario era irrimediabilmente venuta a mancare.

B. X. si è aggravato al Tribunale cantonale amministrativo, il quale per pronuncia del 23 aprile 2012 ne ha accolto il ricorso annullando la decisione 5 ottobre 2010 del Consiglio di Stato e il provvedimento di licenziamento 22 febbraio 2010 della delegazione consortile del Consorzio protezione civile Z. In sintesi, i giudici di prime cure hanno in primo luogo ritenuto che l'accertamento effettuato dal datore di lavoro mediante l'inserimento di un dispositivo di registrazione (spyware) nel personal computer del proprio dipendente fosse illecito. Essi hanno in seguito stabilito che il mezzo di prova
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acquisito illecitamente non poteva nemmeno essere utilizzato ai fini processuali poiché - contrariamente a quanto sostenuto dal Consiglio di Stato - l'interesse all'accertamento della verità materiale non prevaleva su quello del dipendente X. alla tutela della sua personalità. Esclusa la possibilità di fare uso delle registrazioni illecite, per il Tribunale cantonale amministrativo veniva logicamente a cadere il fondamento stesso del licenziamento disciplinare. In ogni caso, anche volendo ritenerla dimostrata, la violazione dei doveri di servizio addebitata all'interessato non poteva costituire un motivo di gravità tale da giustificare un licenziamento immediato perché, per fondare una destituzione, X. avrebbe dovuto agire in spregio di espliciti richiami all'ordine - non avvenuti - del datore di lavoro. Non essendo intervenuto per avvertire e correggere il proprio dipendente, il datore di lavoro avrebbe inoltre agito contrariamente al principio della buona fede. Infine, anche il precedente ammonimento del 2003, per violazioni di tutt'altra natura, non giustificava per i giudici cantonali la sanzione, ritenuta sproporzionata, del licenziamento immediato poiché nei 24 anni di anzianità di servizio non risultavano altri momenti di demerito.

C. Il Consorzio protezione civile Z. ha interposto ricorso in materia di diritto pubblico con il quale, previa concessione dell'effetto sospensivo, chiede al Tribunale federale di annullare il giudizio cantonale e di confermare il licenziamento disciplinare. Dei motivi si dirà, per quanto occorra, nei considerandi.
X. propone la reiezione del gravame, mentre il Tribunale cantonale amministrativo si riconferma nelle conclusioni del suo giudizio.

D. Con decreto del 27 settembre 2012 il Presidente della I Corte di diritto sociale ha accolto la richiesta d'effetto sospensivo contenuta nel gravame.
Il ricorso è stato respinto.

Erwägungen

Dai considerandi:

3.

3.1 Il Tribunale cantonale amministrativo ha anzitutto accertato che l'installazione, nel personal computer dell'opponente, del programma spia atto a rilevare in modo continuo tutte le operazioni svolte tra il 15 giugno e il 22 settembre 2009 era stata motivata dal sospetto che quest'ultimo abusasse degli strumenti informatici messigli a disposizione dal datore di lavoro e svolgesse attività estranee alla sua
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funzione. A indurre il consorzio ad effettuare una sorveglianza nominativa del traffico informatico sul personal computer di X. non sarebbero stati particolari ritardi nell'esecuzione del lavoro assegnatogli, bensì i ripetuti intasamenti del server aziendale provocati dal consistente volume di e-mail da questi inviate e ricevute. Secondo i giudici di prime cure, la sorveglianza mirata e continua del traffico informatico era manifestamente illecita poiché lesiva dell'art. 26 dell'ordinanza 3 del 18 agosto 1993 concernente la legge sul lavoro (Igiene, OLL 3; RS 822.113) e non era giustificata da alcun interesse preponderante, pubblico o particolare del datore di lavoro. Essa costituiva inoltre una misura sproporzionata perché per verificare il fondamento del sospetto nutrito dal datore di lavoro sarebbe bastato procedere a una analisi sommaria dei logfiles disponibili, prospettando al dipendente le risultanze per richiamarlo semmai all'ordine. La sorveglianza era infine pure lesiva del principio della buona fede poiché i dipendenti del consorzio ricorrente potevano attendersi che in caso di sospetto impiego abusivo dei mezzi informatici il datore di lavoro non adottasse quale prima misura l'installazione di un programma spia di controllo, ma li richiamasse anzitutto all'ordine.

3.2 Il consorzio ricorrente contesta questa valutazione e lamenta in primo luogo una violazione dell' art. 26 OLL 3 , oltre che dell' art. 29 cpv. 2 Cost. , per avere i primi giudici ritenuto illecito il mezzo di prova conseguito con la perizia A. Rimprovera inoltre alla Corte cantonale di avere effettuato un accertamento dei fatti e un apprezzamento delle prove (segnatamente della perizia A.) arbitrari come pure di avere arbitrariamente applicato il diritto cantonale, segnatamente in relazione all'ordinamento in materia di protezione dei dati. Censura infine una violazione degli art. 5 e 9 Cost. per avere i giudici cantonali ritenuto sproporzionata la misura di sorveglianza e di licenziamento dell'opponente.

4.

4.1 Il ricorrente rileva che il divieto di sorveglianza del dipendente sul posto di lavoro non è assoluto. Ricorda che l' art. 26 cpv. 2 OLL 3 permette detti sistemi di sorveglianza se sono necessari in particolare per motivi di sicurezza, di prevenzione degli incidenti, di organizzazione o di pianificazione del lavoro. Orbene, l'inserimento di un dispositivo di registrazione dei dati nel personal computer aziendale di X. sarebbe stato unicamente dettato dall'interesse istruttorio, autentico e genuino, di confermare o di eliminare il sospetto di abusi alimentato dalla tenuta sospetta dei suoi programmi di lavoro
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e dei rendiconti personali settimanali, dalla frequente paralisi del flusso dei dati aziendali sul suo indirizzo di posta elettronica privato che l'opponente avrebbe continuato a mantenere in dispregio della direttiva del 5 marzo 2009 concernente l'uso degli strumenti informatici e di telecomunicazione, da lui firmata per accettazione, e dal reperimento di materiale privato nella stampante e nella fotocopiatrice aziendali. In virtù di questi elementi, si doveva necessariamente procedere a una verifica personale (e dunque non anonimizzata o coperta da pseudonimi) del traffico informatico. Inoltre, la sorveglianza è durata tre mesi e qualche giorno, il tempo necessario per una verifica ineccepibile. A ciò si aggiunge che l'opponente, in qualità di capo istruttore, era impegnato sia in ufficio sia all'esterno più o meno nella stessa percentuale di tempo e che in ufficio il lavoro al suo personal computer era saltuario. Per questa ragione, sarebbe arbitrario sostenere che la sorveglianza sarebbe avvenuta in maniera continuata e permanente, atteso che essa era invece lecita e necessaria sotto il profilo sia dell' art. 26 cpv. 2 OLL 3 sia dell'art. 6 cpv. 4 lett. b della legge del 9 marzo 1987 del Canton Ticino sulla protezione dei dati personali (LPDP; RL 1.6.1.1).

4.2 Preliminarmente si ricorda che non spetta al Tribunale federale, tenuto conto del potere di esame limitato di cui dispone (cfr. art. 105 LTF ), procedere nuovamente all'apprezzamento delle prove assunte, bensì alla parte ricorrente dimostrare in quale misura quello operato dall'autorità cantonale sarebbe manifestamente inesatto o sarebbe stato effettuato in violazione di regole processuali essenziali. Ora, il ricorso perlopiù non contiene una vera dimostrazione del carattere arbitrario dell'accertamento dello stato di fatto del giudizio impugnato ma tende piuttosto a sostituire (inammissibilmente) il proprio apprezzamento a quello dell'autorità precedente. Inoltre non si possono prendere in considerazione i fatti nuovi allegati nel ricorso (segnatamente: gli accenni al reperimento di materiale privato nella stampante e nella fotocopiatrice aziendale e alla tenuta sospetta dei programmi di lavoro e dei rendiconti personali settimanali) che non sono stati accertati dalla pronuncia impugnata (BERNARD CORBOZ, Commentaire de la LTF, 2009, n. 13 e 15 ad art. 99 LTF ), anche perché l'insorgente non spiega in quale misura la decisione del Tribunale cantonale amministrativo avrebbe dato adito a queste nuove allegazioni ( art. 99 cpv. 1 LTF ).

4.3 Nella misura in cui contesta la mancata assunzione della perizia A., l'insorgente lamenta tuttavia pure un accertamento dei fatti
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contrario al diritto ( art. 95 LTF ), e più precisamente una violazione del diritto alla prova ( art. 29 cpv. 2 Cost. ; sentenza 9C_785/2010 del 10 giugno 2011 consid. 4.1, in SVR 2012 IV n. 2 pag. 4). Al diritto di partecipazione delle parti dedotto dall' art. 29 cpv. 2 Cost. si contrappone in effetti l'obbligo delle autorità di esaminare gli argomenti e le domande processuali come pure di assumere le prove proposte tempestivamente e nelle giuste forme (cfr. DTF 127 I 54 consid. 2b pag. 56; DTF 126 I 97 consid. 2b pag. 102 con rinvii). Occorre dunque dapprima esaminare se - come ha ritenuto la Corte cantonale - la sorveglianza informatica e di riflesso anche la perizia A. sono state realizzate illecitamente e, in un secondo tempo, se le loro risultanze possano tutt'al più, anche se illecite, essere utilizzate.

5.

5.1 Secondo l'art. 6 cpv. 1 della legge federale del 13 marzo 1964 sul lavoro nell'industria, nell'artigianato e nel commercio (legge sul lavoro, LL; RS 822.11), a tutela della salute dei lavoratori, il datore di lavoro deve prendere tutti i provvedimenti che l'esperienza ha dimostrato necessari, realizzabili secondo lo stato della tecnica e adeguati alle condizioni d'esercizio. Deve inoltre prendere i provvedimenti necessari per la tutela dell'integrità personale dei lavoratori. Giusta l' art. 6 cpv. 4 LL , i provvedimenti sulla protezione della salute nel lavoro necessari nelle aziende sono definiti mediante ordinanza. Sulla base di questa delega di competenze come pure dell' art. 40 LL , il Consiglio federale ha emanato la OLL 3. Il suo art. 26 - che in virtù della precisazione dell' art. 3a LL risulta applicabile anche alle amministrazioni federali, cantonali e comunali - dispone che:
1 Non è ammessa l'applicazione di sistemi di sorveglianza e di controllo del comportamento dei lavoratori sul posto di lavoro.
2 I sistemi di sorveglianza o di controllo, se sono necessari per altre ragioni, devono essere concepiti e disposti in modo da non pregiudicare la salute e la libertà di movimento dei lavoratori.

5.2 Il Tribunale federale si è confrontato in dettaglio con questa norma in DTF 130 II 425 . Dopo averne rilevato la conformità alla legge (consid. 3), ha aggiunto che, secondo il suo tenore e lo scopo perseguito, essa non intende vietare in maniera generale l'impiego di sistemi di sorveglianza. Vietati sono solo i sistemi destinati a sorvegliare il comportamento dei lavoratori sul loro luogo di lavoro, ma non anche quelli necessari per altri scopi (consid. 4.1). È così nella natura stessa di un rapporto di lavoro che il datore di lavoro possa esercitare un certo controllo sul comportamento e sull'attività del suo
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personale. Non solo per motivi di sicurezza o di organizzazione e pianificazione del lavoro ma anche - previa informazione dei lavoratori - per controllare il lavoro stesso, soprattutto la sua qualità (consid. 4.2). In sintesi, l' art. 26 OLL 3 vieta i sistemi di sorveglianza che mirano unicamente o essenzialmente a sorvegliare il comportamento in quanto tale dei lavoratori. Nondimeno, anche laddove il suo impiego non è vietato, sebbene determini oggettivamente un tale effetto, il sistema di sorveglianza scelto deve, in considerazione di tutte le circostanze del caso, costituire un mezzo proporzionato allo scopo perseguito e i lavoratori devono essere informati preventivamente sul suo impiego (consid. 4.4). Nella fattispecie ivi esaminata il Tribunale federale ha ritenuto di massima lecito l'impiego di un sistema di localizzazione satellitare GPS sui veicoli aziendali per controllare se i collaboratori del servizio esterno effettuano le visite alla clientela. Il datore di lavoro deve avere la possibilità di evitare eventuali abusi (consid. 5.5). La sorveglianza può in particolare considerarsi una misura proporzionata se avviene solo a posteriori e in maniera indiretta e non è permanente (consid. 6.5).

5.3 Nella sentenza 6B_536/2009 del 12 novembre 2009, in SJ 2010 I pag. 394, si trattava invece di valutare il caso di un datore di lavoro che aveva denunciato per furto una sua dipendente fondandosi sulle registrazioni di una videocamera installata nel locale di cassa all'insaputa dei collaboratori. Per quanto qui di interesse, la Corte di diritto penale del Tribunale federale ha proceduto in quella vertenza a interpretare in maniera restrittiva l' art. 26 cpv. 1 OLL 3 vietando unicamente quei sistemi di sorveglianza atti a danneggiare la sa lute o il benessere dei lavoratori (consid. 3.6.1). Una sorveglianza non è per contro stata ritenuta danneggiare sempre e automaticamente la salute dei lavoratori (consid. 3.6.2). La videosorveglianza del locale di cassa non determinava nella fattispecie esaminata la sorveglianza per un lungo periodo del comportamento dei lavoratori sul luogo di lavoro, bensì focalizzava essenzialmente l'attenzione sulla cassa nelle cui vicinanze i lavoratori venivano a trovarsi solo sporadicamente e per breve tempo. Una simile sorveglianza non era atta a danneggiare la salute o il benessere dei lavoratori (consid. 3.6.3). Inoltre la videosorveglianza serviva a prevenire la commissione di reati penali sicché il datore di lavoro vantava un interesse notevole a una simile misura. In tali condizioni i diritti della personalità dei lavoratori non sono stati illecitamente lesi (consid. 3.7). La videosorveglianza non violava pertanto l' art. 26 OLL 3 e poteva essere utilizzata quale mezzo di prova (consid. 3.8).
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5.4 La II Corte di diritto sociale ha recentemente ribadito questa prassi nell'ambito di un ricorso intentato da un istituto di previdenza contro la decisione in materia di AI con cui l'autorità cantonale di Basilea Campagna, seguendo la valutazione dell'autorità penale, aveva dichiarato inammissibile l'utilizzo ai fini processuali di un filmato realizzato dal datore di lavoro all'insaputa dei collaboratori. Apparentemente questo filmato ritraeva l'assicurato indagato (licenziato e poi divenuto incapace al lavoro) solo per breve tempo e per il resto si limitava a mostrare le mani e il registratore di cassa (sentenza citata 9C_785/2010 consid. 6.5). Il Tribunale federale ha osservato che in tali circostanze (che andavano però ancora appurate) le riprese video non erano assimilabili a una sorveglianza del comportamento dei lavoratori ai sensi dell' art. 26 cpv. 1 OLL 3 , bensì ricadevano sotto il cpv. 2 della norma poiché si focalizzavano sulla cassa e avevano per scopo la prevenzione dei furti e delle appropriazioni indebite (consid. 6.5). Tenuto conto delle cautele apparentemente messe in atto, la II Corte di diritto sociale ha concluso che una simile videosorveglianza non era sproporzionata e che le riprese incriminate potevano essere lecitamente assunte quale mezzo di prova (consid. 6.7 e 6.8).

5.5 Nella presente fattispecie si tratta di esaminare (per la prima volta) la liceità e la conformità all' art. 26 OLL 3 (ma non solo) di una sorveglianza informatica messa in atto da un datore di lavoro sull'elaboratore dati aziendale del proprio dipendente mediante l'impiego di un programma spia. Questo sistema di controllo ha permesso nella fattispecie al ricorrente di rilevare tutte le attività svolte (e riprodotte in una relazione tecnica di 700 pagine) dall'opponente sul suo personal computer consortile tra il 15 giugno e il 22 settembre 2009 e di ricavare tra l'altro (dal 12 agosto 2009) degli screenshots, ovvero delle riprese fotografiche dello schermo con tutto il loro contenuto.

5.5.1 Pur non essendo apparentemente (ancora) stata recepita a livello cantonale nella LPDP, mentre lo è, dal 1° aprile 2012, a livello federale (cfr. gli art. 57i-q della legge del 21 marzo 1997 sull'organizzazione del Governo e dell'Amministrazione [LOGA; RS 172.010]), la Guida per le amministrazioni pubbliche e l'economia privata dell'Incaricato federale della protezione dei dati e della trasparenza (IFPDT) concernente la Sorveglianza dell'utilizzazione di Internet e della posta elettronica sul posto di lavoro (edizione dicembre 2007; in seguito: Guida IFPDT, consultabile al sito
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http://www.edoeb.admin.ch/dokumentation/00445/00472/00532/index.html?lang=it ) costituisce, insieme alle indicazioni della Segreteria di Stato dell'economia (SECO) relative alla OLL 3 (consultabili al sito http://www.seco.admin.ch/themen/00385/02747/02752/02790/index.html?lang= it ) un importante aiuto interpretativo della norma in esame e si propone di assicurare uno standard minimo per la sorveglianza informatica (cfr. GIORDANO COSTA, Internet und E-Mail-Überwachung am Arbeitsplatz, Entwicklungen in der Lehre, Rechtsprechung und Gesetzgebung, Jusletter del 9 gennaio 2012, pag. 2 seg.).
L'IFPDT osserva che l'impiego di programmi spia permette di registrare, all'insaputa delle persone interessate, tutte le attività sul computer di un utente rendendo così possibile una sorveglianza permanente e dettagliata del lavoratore sul suo posto di lavoro elettronico. Questi programmi permettono in particolare di leggere i messaggi elettronici mentre vengono registrati e trasmessi a terzi. Anche la "ripresa fotografica" e la "copiatura" dello schermo a intervalli regolari (recurrent screenshots) con tutto il suo contenuto (ad es., pagine Internet) è una delle funzioni dei programmi spia, che sono inoltre in grado di rilevare tutti i tasti battuti (ad es., mediante l'impiego di un hardware keylogger), di ottenere password, di vedere tutte le applicazioni attive, di intervenire sul disco rigido del PC e di ascoltare i file audio. I programmi di sorveglianza permettono anche la memorizzazione dei rilevamenti e delle informazioni ottenute. È possibile anche l'elaborazione ulteriore di questi dati, ad esempio sotto forma di comunicazione di dati a terzi (Guida, pag. 11 seg.). Per questa ragione, l'IFPDT considera l'impiego di programmi spia una inammissibile ingerenza nell'attività del lavoratore poiché essi sono un sistema performante per la sorveglianza occulta del comportamento del lavoratore sul posto di lavoro. Il loro impiego costituisce sia una violazione del divieto di sorveglianza del comportamento sia una violazione delle regole della buona fede. Le molteplici funzioni e possibilità di programmazione dei programmi di sorveglianza permettono un'interferenza nella personalità dell'impiegato molto più incisiva di quella risultante dall'impiego di una telecamera (Guida, pag. 16).
Da parte sua, la SECO nelle sue direttive rileva (a pag. 1) la difficoltà se non addirittura l'impossibilità di tracciare una precisa linea di demarcazione tra la sorveglianza (di per sé permessa) delle prestazioni o della sicurezza e la sorveglianza (non permessa) del comportamento. Si ha sorveglianza delle prestazioni quando, ad
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esempio, si procede alla registrazione del numero di pezzi prodotti o del numero di battute giornaliere nell'elaborazione testi. Per contro, il rilevamento dettagliato della ripartizione nel corso della giornata permetterebbe di risalire al comportamento e deve pertanto considerarsi inammissibile. Anche nel controllo delle prestazioni occorre comunque procedere con una certa cautela (principio di proporzionalità). Delimitando il campo di applicazione del cpv. 1 da quello del cpv. 2 dell' art. 26 OLL 3 , la SECO fa ricadere sotto il primo qualsiasi sorveglianza che permette di verificare in dettaglio, più o meno costantemente, alcune attività dei lavoratori (ad es. telecamere che riprendono l'attività dei lavoratori e il modo in cui la eseguono; microfoni che registrano le conversazioni dei lavoratori; sistemi di ascolto telefonico; programmi informatici che consentono di sorvegliare le attività dei lavoratori al computer). L'esperienza ha dimostrato che gli impianti di sorveglianza risvegliano sentimenti negativi nei lavoratori e peggiorano il clima generale di lavoro. Questi impianti disturbano il senso di benessere, la salute psichica e, di conseguenza, le capacità lavorative del personale. È perciò nell'interesse di tutti rinunciare all'impiego di sistemi di sorveglianza o, almeno, impiegarli nella maniera più restrittiva possibile (direttive, pag. 2).

5.5.2 Questa interpretazione riguardo all'inammissibilità di principio dell'impiego di programmi spia si ritrova sostanzialmente in maniera pressoché unanime, sebbene con qualche sfumatura, in dottrina. Fra i tanti, BRUNO BAERISWYL (10 Jahre Datenschutz im Arbeitsrecht: geklärte und ungeklärte Fragen, in Aktuelle Probleme des Arbeitsrechts, 2005, pag. 51 segg.) osserva che l'impiego di programmi spyware viola senz'altro le disposizioni di diritto del lavoro e della protezione dei dati (pag. 66). Allo stesso modo, MAURER-LAMBROU/STEINER (in Basler Kommentar, Datenschutzgesetz, 2 a ed. 2006, n. 30 ad art. 4 LPD ) e MARTIN WINTERBERGER-YANG (ibidem, n. 29 ad art. 328b/362 CO) precisano che l'impiego di simili programmi è contrario al divieto di sorveglianza del comportamento dell' art. 26 cpv. 1 OLL 3 e al principio della buona fede poiché consente di sorvegliare in maniera occulta e permanente il posto di lavoro elettronico. Similmente si esprime DAVID ROSENTHAL (in Handkommentar zum Datenschutzgesetz, Rosenthal/Jöhri [ed.], 2008, n. 102 ad art. 328b CO ), per il quale l'impiego di tali tecniche può però eccezionalmente giustificarsi (in rari casi) se ad esempio si indaga sull'accusa di un grave delitto, se esiste un forte sospetto nei confronti della persona interessata, se un altro modo di procedere, meno incisivo, non è
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ragionevolmente possibile e se sono state prese misure speciali a tutela della persona interessata. COSTA (op. cit., pag. 3) sottolinea ugualmente che lo spionaggio dei lavoratori (con o senza preventivo accertamento di abuso o di concreto sospetto di abuso) è vietato (nello stesso senso, con rinvio a quest'ultimo autore, anche KURT PÄRLI, Evaluieren, kontrollieren, überwachen: Datenschutz in Arbeitsverhältnissen, in Datenschutz im Arbeits-, Versicherungs- und Sozialbereich: Aktuelle Herausforderungen, Kieser/Pärli [ed.], 2012, pag. 47).Anche per SIMON WOLFER (Die elektronische Überwachung des Arbeitnehmers im privatrechtlichen Arbeitsverhältnis, 2008, pag. 187) l'utilizzo di spyware costituisce una sorveglianza vietata del comportamento e ricade sotto il campo applicativo dell' art. 26 cpv. 1 OLL 3 purché il lavoratore interessato lavori durante determinati periodi prevalentemente con il computer. In caso contrario non sarebbe possibile trarre conclusioni attendibili sul suo comportamento. Da parte sua CHRISTOPH HOLENSTEIN (Die Benutzung von elektronischen Kommunikationsmitteln [Internet und Intranet] imArbeitsverhältnis, 2002, pag. 119) rileva che lo scopo precipuo dei programmi spia, grazie alla loro possibilità di registrare minuziosamente tutte le attività informatiche, è di tenere a disposizione i dati memorizzati delle pagine web e delle e-mail per permettere il controllo e la sorveglianza dei lavoratori. A suo giudizio l'installazione di simile "Compliance Software" è illecita, anche perché permette di creare un profilo della personalità dell'utente (nello stesso senso, in relazione all' art. 328b CO che offre una protezione equivalente a quella dell' art. 26 OLL 3 e che fornisce pertanto validi elementi interpretativi pure per la comprensione di questo secondo disposto, anche WOLFGANG PORTMANN, in Basler Kommentar, Obligationenrecht, vol. I, 5 a ed. 2011, n. 50 ad art. 328b CO ; meno restrittiva invece REBEKKA RIESSELMANN-SAXER, Datenschutz im privatrechtlichen Arbeitsverhältnis, 2002, pag. 115 seg., per la quale, tuttavia, dal momento che lo scopo di una sorveglianza occulta può essere ottenuto anche con mezzi meno incisivi, la misura non sarebbe comunque proporzionata). Dal canto suo, GENEVIÈVE ORDOLLI (Les systèmes de surveillance des travailleurs: aspects de droit individuel et collectif, in Droit décloisonné, interférences et interdépendances entre droit privé et droit public, Dunand/Mahon [ed.], 2009, pag. 199 segg.) sostiene che già la sorveglianza dettagliata dei fatti e dei gesti dei lavoratori costituisce una sorveglianza illecita del comportamento ai sensi dell' art. 26 cpv. 1 OLL 3 , indipendentemente dal fatto che essa sia o meno permanente.
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L'autrice aggiunge che i programmi spia hanno per scopo il controllo del comportamento dei lavoratori e sono pertanto illeciti (pagg. 211 e 218). Infine, THOMAS GEISER (Interne Untersuchungen in einem Unternehmen und Datenschutz, in Von der Lochkarte zum Mobile Computing, 20 Jahre Datenschutz in der Schweiz, 2012, pag. 19 segg.) evidenzia più in generale che il controllo totale è escluso e che il lavoratore deve potere conservare uno spazio privato non sorvegliato anche sul posto di lavoro, pena il pregiudizio della sua salute psichica e della sua libertà di movimento (pag. 23). L'autore rileva inoltre che il trattamento dei dati deve avvenire secondo il principio della buona fede il quale esclude di massima - se non la impone segnatamente la necessità di indagine in relazione alla commissione (o al suo sospetto) di un reato penale in azienda, il cui successo verrebbe vanificato se fosse garantita la trasparenza - la liceità di una sorveglianza occulta. La sfera privata giuridicamente protetta comprende infatti anche il diritto all'autodeterminazione informativa che include il diritto di stabilire chi può raccogliere, ricevere e utilizzare determinate informazioni riguardo a una determinata persona. Da ciò deriva anche che la sorveglianza della navigazione in Internet deve essere preannunciata. Il datore di lavoro non possiede per contro un interesse degno di protezione per controllare quali siti web vengono consultati sul posto di lavoro per motivi privati (pag. 35).

5.5.3 Le modalità d'impiego del programma spia depongono nel caso di specie - alla luce anche delle considerazioni che precedono - piuttosto per una loro qualifica ai sensi del cpv. 1. Sebbene abbia interessato solo una parte limitata (quella appunto passata al personal computer) del tempo di lavoro totale dell'opponente, la sorveglianza segreta si è protratta per un periodo considerevole di oltre tre mesi interessando tutta l'attività informatica del dipendente. Ciò ha tra l'altro permesso di prendere (almeno dal 12 agosto 2009) conoscenza anche dei contenuti del traffico informatico (pagine web consultate, messaggi di posta elettronica), ricavandone (grazie agli screenshots allegati alla perizia) informazioni in parte strettamente riservate (peraltro in parte così anche espressamente indicate nell'oggetto di posta elettronica [v. ad es. pag. 570 dellaperizia A.]), di carattere familiare (mail della moglie per questioni delicate, strettamente private [pag. 570]; curriculum vitae del figlio [pagg. 233 e 236]), finanziario (operazioni bancarie con indicazione dei numeri di conto, dei relativi saldi e in parte anche dei beneficiari dei pagamenti [pagg. 291, 302, 406, 409, 415]) e istituzionale
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(comunicazioni connesse alla sua funzione di Y. [pagg. 359, 362 365, 385]), oltreche informazioni di natura meno riservata ma comunque pur sempre personale (quali la partecipazione ad attività associative), le quali hanno permesso di creare un vero e proprio profilo della personalità dell'opponente.
Nulla impedisce quindi di concludere che siffatto sistema di sorveglianza - continua e dettagliata - mirasse essenzialmente a sorvegliare il comportamento del dipendente X. e fosse per il resto pure atto a danneggiare la salute o il benessere non solo suoi ma in definitiva anche di tutto il personale impiegato dal consorzio ricorrente, indirettamente toccato da questi metodi di controllo. Del resto, sebbene il tema non sia ancora definitivamente risolto (cfr. DTF 130 II 425 consid. 3.3 pag. 433 con riferimento a Workers' privacy, Part II: Monitoring and surveillance in the workplace, in Conditions of work digest, edito dall'Organizzazione internazionale del lavoro [OIL], 1993, pag. 22), vi sono studi che mostrano come la sorveglianza elettronica costante provochi effetti negativi sulla salute e sul benessere dei lavoratori causando loro situazioni di stress. Il dipendente (a conoscenza del fatto che il datore di lavoro adotta simili sistemi di sorveglianza) si sente spiato e a disagio. Ha l'impressione che il datore di lavoro interferisca nella sua sfera privata. La dimensione affettiva e sociale della sua personalità ne risentono, dando luogo a sentimenti di impotenza e paura di perdere il posto con ripercussioni negative anche sulla qualità del lavoro (cfr. ORDOLLI, op. cit., con riferimento al citato rapporto dell'OIL; nello stesso senso inoltre anche le summenzionate [consid. 5.5.1] direttive della SECO e WOLFER, op. cit., pag. 182).

5.5.4 Comunque sia, anche volendo per ipotesi qualificare la fattispecie alla luce dell' art. 26 cpv. 2 OLL 3 , il risultato non cambierebbe. Infatti, anche se si considerasse - come pretende sostanzialmente il consorzio ricorrente che di fatto si richiama a motivi di sicurezza e in particolare alla natura paramilitare dell'attività svolta, oltre che all'interesse (di per sé legittimo) di controllare le prestazioni del proprio dipendente e di impedire situazioni di abuso - che la sorveglianza del comportamento costituiva unicamente uno scopo secondario o fosse solo un effetto dell'impiego del programma spia, l'illiceità della misura risulterebbe dall'esame della sua (mancata) proporzionalità. Questi programmi spia consentono certamente di raggiungere lo scopo (di per sé, giova sottolinearlo, legittimo) di lotta agli abusi e di controllo del rendimento lavorativo e rispondono pertanto al principio di idoneità. Non è invece chiaro - né il
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ricorrente lo spiega minimamente - in quale misura il controllo della navigazione privata in Internet possa essere dettato da non meglio precisati motivi di sicurezza legati al carattere paramilitare del datore di lavoro. Del resto, non passa inosservato il carattere contraddittorio della tesi del consorzio il quale, da un lato, si richiama a interessi di sicurezza paramilitare ma, dall'altro, non ha esitato ad affidare l'analisi del disco fisso del personal computer aziendale dell'opponente e la redazione della perizia tecnica a una ditta estera. Ad ogni modo, l'impiego dello spyware non si concilierebbe manifestamente con il requisito di necessità. Quest'ultimo impone che tra i vari mezzi idonei a disposizione la scelta ricada su quello meno incisivo e meno pregiudizievole per gli interessi in causa (v. DTF 130 II 425 consid. 5.2 pag. 438). Ora, di tutta evidenza la lotta agli abusi e il legittimo interesse del datore di lavoro al controllo che le sue istruzioni - espresse nella direttiva del 5 marzo 2009, firmata per accettazione dall'opponente il 1° aprile 2009 - concernenti l'uso degli strumenti informatici e di telecomunicazione fossero rispettate non imponevano di certo una sorveglianza invasiva e continua come quella messa in atto con l'installazione clandestina dell'applicazione Spector Pro. Questi obiettivi potevano essere conseguiti con provvedimenti meno invasivi, quali il blocco preventivo mediante firewalls di determinati siti Internet indesiderati (come prescrive del resto la stessa direttiva del 5 marzo 2009 al suo punto 4: "[...] il Consorzio adotta in primo luogo misure di tipo tecnico [applicazione di filtri e simili] che impediscono guasti e abusi ") e, laddove non sufficiente, l'analisi delle registrazioni a giornale degli accessi a Internet e del traffico e-mail. Come osserva l'IFPDT, il datore di lavoro deve in effetti in primo luogo concentrare i propri sforzi sulla prevenzione tecnica. Invece di sorvegliare i dipendenti dovrebbe predisporre misure tecniche di protezione che limitino la navigazione vietata e salvaguardino l'azienda da danni tecnici. Solo se in questo modo non riesce ad evitare un abuso, il datore di lavoro potrà, previo avvertimento nel regolamento relativo alla sorveglianza, procedere ad analisi nominative delle registrazioni a giornale (logfile; Guida, pag. 4; più in dettaglio sulla procedura [personalizzata o impersonale, in forma anonima o con pseudonimi] da seguire, a seconda che vi si sia o meno un [sospetto di] abuso cfr. Guida pag. 20 segg.). Ciò che non impone invece - contrariamente a quanto pretende il ricorrente - l'installazione di uno spyware. Va pertanto pienamente condivisa la valutazione dei giudici di prime cure secondo cui per verificare il fondamento del sospetto nutrito dal consorzio
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sul conto del proprio funzionario sarebbe bastato procedere a un'analisi dei logfiles disponibili - relativi di regola ai soli dati marginali ("chi [indirizzo-IP oppure, per le e-mail professionali, indirizzo del mittente e del destinatario], cosa [indirizzo completo del sito Internet visionato, Uniform Ressource Locator, URL, rispettivamente oggetto del messaggio di posta elettronica], quando [data e ora della consultazione, rispettivamente della comunicazione]") ma non anche ai contenuti del traffico informatico (v. HOLENSTEIN, op. cit., pag. 94 seg.; Guida IFPDT, pagg. 11, 24 e 34) - e confrontarlo in seguito con le risultanze per richiamarlo all'ordine (in questo senso, fra i tanti BEAT RUDIN, Was darf die Chefin, was die Angestellte?, Arbeits- und datenschutzrechtliche Schranken der technischen Überwachung der internet-Nutzung am Arbeitsplatz, digma 1/2001 pag. 4 segg.; HOLENSTEIN, op. cit., pag. 110 segg.; WOLFER, op. cit., pagg. 178, 189 e 192; ORDOLLI, op. cit., pag. 218 seg.; MAURER-LAMBROU/STEINER, op. cit., n. 29 ad art. 4 LPD ; COSTA, op. cit., pag. 3 segg.; PÄRLI, op. cit., pag. 47; PORTMANN, op. cit., n. 50 ad art. 328b CO ).

5.5.5 Con la sottoscrizione della direttiva del 5 marzo 2009 l'opponente è stato, sì, preventivamente informato della possibilità di controlli da parte del datore di lavoro, ma certamente non delle modalità invasive e sproporzionate operate dal ricorrente. Per cui anche l'esistenza di una sufficiente base legale per la sorveglianza intrapresa appare quantomeno dubbia, anche se non propriamente litigiosa. Inoltre se è vero, come ha del resto accertato senza il minimo arbitrio anche la Corte cantonale, che la direttiva prescriveva di limitare al minimo l'impiego privato, soprattutto durante gli orari di lavoro, dei mezzi informatici (punto 2) e avvisava che per motivi di sicurezza o per eseguire dei controlli a livello di prestazione potevano essere poste delle limitazioni riguardo alla riservatezza, con la possibilità per il datore di lavoro di disporre e, in caso di sospetto di abuso, anche analizzare i dati sul traffico e i dati log (ad es. protocolli degli accessi a Internet e traffico e-mail) attraverso i quali risalire all'ora in cui erano stabilite determinate comunicazioni (punto 3), ciò non toglie che i controlli dovevano comunque avvenire, per precisazione della direttiva stessa, nel rispetto del principio della proporzionalità. A ciò si aggiunge, di transenna, che comunque anche una eventuale, in concreto però denegata, accettazione preventiva di una sorveglianza mediante spyware difficilmente avrebbe potuto esplicare validi effetti giuridici e reggere di fronte al carattere imperativo dell' art. 26 OLL 3 (v. WOLFER, op. cit., pag. 93 seg.).
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Lo stesso dicasi in relazione allo scritto 23 settembre 2009 dell'avvocato di controparte dal quale il ricorrente non può comunque seriamente dedurre un consenso dell'opponente in relazione alle verifiche nel frattempo, a sua insaputa, già compiute, dato che in quel momento X. non era a conoscenza delle concrete modalità di controllo utilizzate.

5.5.6 Il ricorrente si richiama inoltre alla succitata sentenza 9C_785/2010 per sostenere che, a garanzia dell'autenticità e della genuinità della prova per evitare ogni possibile inquinamento, non si poteva pretendere che esso rendesse preventivamente edotto l'opponente dell'inserimento nel suo personal computer di lavoro di un dispositivo di registrazione. Il richiamo è però inconferente già solo per il fatto che, a differenza di quanto valutato in quella vertenza (videosorveglianza del solo locale cassa), la misura di sorveglianza qui in esame era in sé vietata o comunque sproporzionata e non era altrimenti necessaria ad assicurare la prova nella lotta contro un (fondato sospetto di) grave reato penale (v. sul tema ROSENTHAL, op. cit., n. 102 ad art. 328b CO ; GEISER, op. cit., pag. 25).

5.5.7 In tali condizioni, essendo già contraria alle norme a tutela dei lavoratori ( art. 26 OLL 3 ), non occorre verificare oltre la conformità della misura in parola alla legislazione (cantonale) in materia di protezione dei dati. Infatti, per essere lecita, una sorveglianza deve in questo ambito cumulativamente rispettare le condizioni sia dell'uno sia dell'altro ordinamento (cfr. HOLENSTEIN, op. cit., pag. 114; PORTMANN, op. cit., n. 48 ad art. 328b CO ). Può dunque rimanere indeciso il quesito, risolto affermativamente dai giudici cantonali, di sapere se l'elaborazione dei dati operata dal ricorrente fosse (anche) contraria al principio della buona fede prescritto dall'art. 6 (cpv. 3) LPDP per il fatto che l'opponente, non informato nella direttiva del 5 marzo 2009 della eventualità di un simile (per genere ed estensione) provvedimento, non doveva attendersi una misura di sorveglianza clandestina tanto invasiva (più in generale sul tema cfr. WOLFER, op. cit., pagg. 55 segg. e 79 seg.). Così come non mette più nemmeno conto di esaminare la legalità della sorveglianza intrapresa dal ricorrente dal profilo penale, soprattutto dopo che la Camera dei ricorsi penali del Tribunale d'appello ticinese ha confermato con pronuncia, cresciuta in giudicato, del 21 settembre 2010 la tardività della querela penale presentata dall'opponente contro alcuni membri del consorzio ricorrente per titolo di sottrazione di dati personali (art. 179 novies CP).
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6.

6.1 Accertata l'illiceità dell'acquisizione della perizia A., si tratta di verificare se essa potesse comunque essere utilizzata per il motivo - negato dai giudici di prime cure - che l'interesse del datore di lavoro all'accertamento della verità materiale prevaleva sull'interesse del lavoratore alla tutela della sua personalità, violata dall'inserimento clandestino di un dispositivo spyware nel suo personal computer.

6.2 Ricordato come la procedura amministrativa ticinese non regoli l'uso di mezzi di prova acquisiti illecitamente ma dichiari, all'art. 19 cpv. 2 della legge del 19 aprile 1966 di procedura per le cause amministrative (LPamm; RL 3.3.1.1), applicabili per analogia le norme della procedura civile, il Tribunale cantonale amministrativo ha fatto capo ai principi sviluppati in quell'ambito, ritenuti espressione del diritto a un processo equo garantito dall' art. 29 cpv. 1 Cost. e dall' art. 6 CEDU . Esso ha quindi contrapposto l'interesse del dipendente, leso nella sua sfera personale in maniera non trascurabile perché il datore di lavoro, oltre a controllarlo in modo continuo sul suo personal computer, aveva anche preso conoscenza delle e-mail ricevute e inviate, a quello del ricorrente, consistente nella verifica se il tempo trascorso dall'opponente al personal computer, in assenza comunque di particolari sue inadempienze nello svolgimento dei compiti, fosse impiegato per attività estranee alla funzione assegnatagli. Ritenendo che il datore di lavoro non cercasse di verificare soltanto il sospetto di abuso degli strumenti informatici - abuso che avrebbe potuto facilmente stroncare richiamando all'ordine il dipendente - ma cercasse addirittura di procurarsi il pretesto e la prova per porre fine al rapporto di impiego, la Corte cantonale ha concluso che l'interesse del consorzio all'accertamento della verità materiale non prevaleva su quello opposto alla tutela della personalità e della sfera privata dei suoi dipendenti.

6.3 Il consorzio ricorrente contesta di essere andato a "caccia della notizia del reato disciplinare" e per il resto osserva che, vigendo nella procedura amministrativa il principio indagatorio, l'interesse alla ricerca della verità materiale dev'essere ritenuto prevalente.

6.4 Oltre a essere difficilmente ricevibile, la tesi ricorsuale si dimostra anche infondata poiché non spiega in quale misura l'accertamento dello stato di fatto in merito agli scopi perseguiti con la sorveglianza sarebbe arbitrario o contrario al diritto, ma si limita a
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sostituire (inammissibilmente) il proprio apprezzamento a quello dell'autorità precedente.

6.4.1 Quale aspetto parziale del diritto a un processo equo ai sensi degli art. 29 cpv. 1 Cost. e 6 n. 1 CEDU il Tribunale federale afferma di principio il divieto di utilizzare mezzi di prova acquisiti illecitamente ( DTF 136 V 117 consid. 4.2.2 pag. 125 con riferimenti). Non esclude in assoluto l'utilizzo di simili mezzi di prova, bensì solo (ma pur sempre) in linea di massima. Il giudice deve operare una ponderazione tra gli opposti interessi ( DTF 131 I 272 consid. 4 pag. 278 segg.), in concreto tra l'interesse del ricorrente all'accertamento della verità materiale e quello dell'opponente alla tutela della propria personalità. Nella procedura civile, alla quale rinvia la LPamm, l' art. 152 cpv. 2 CPC (RS 272) stabilisce che il giudice prende in considerazione mezzi di prova ottenuti illecitamente soltanto se l'interesse all'accertamento della verità prevale (sull'analoga situazione valida a livello giurisprudenziale, in assenza di una norma specifica, prima del 1° gennaio 2011, sotto l'imperio del codice di procedura civile ticinese, cfr. COCCHI/TREZZINI, Codice di procedura civile ticinese massimato e commentato, 2000, n. 50 ad art. 90-91 CPC /TI). Ciò si verifica maggiormente nei procedimenti retti dal principio inquisitorio e/o dalla massima dell'ufficialità che in quelli disciplinati dal principio attitatorio. Nondimeno, l'utilizzo di mezzi di prova acquisiti in seguito a una ingerenza illecita nella sfera privata dev'essere ammesso solo con grande riserbo (cfr. HASENBÖHLER, in Kommentar zur Schweizerischen Zivilprozessordnung [ZPO], Sutter-Somm/Hasenböhler/Leuenberger [ed.], 2010, n. 41 ad art. 152 CPC ; STAEHELIN/STAEHELIN/GROLIMUND, Zivilprozessrecht, 2008, pag. 261 n. 24; CHRISTIAN LEU, in Schweizerische Zivilprozessordnung ZPO, Kommentar, Brunner/Gasser/Schwander [ed.], 2011, n. 56 ad art. 152 CPC ).

6.4.2 Ora, pur essendo la procedura in esame ovviamente retta dal principio inquisitorio, ciò non toglie che l'ingerenza nella sfera privata, realizzata mediante l'inserimento clandestino di un programma spia che ha permesso di controllare in maniera continuativa tutto il traffico informatico sul personal computer di lavoro dell'opponente per un periodo di tempo superiore a tre mesi e di prendere in particolare conoscenza anche del contenuto di messaggi di posta elettronica strettamente privati e riservati, fosse di indubbia intensità e gravità. A questo aspetto si contrappone l'indiscusso interesse del ricorrente il quale però non indagava su fatti di rilevanza penale né soprattutto - per quanto esposto anche al consid. 5.5.4 - si trovava altrimenti nella necessità di dovere per forza ricorrere a simile
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mezzo di sorveglianza invasiva per accertare se l'opponente abusasse realmente degli strumenti informatici dedicandosi ad attività estranee alla funzione assegnatagli. Per accertare e stroncare l'eventuale abuso bastava infatti, come hanno constatato senza il minimo arbitrio i giudici cantonali, che l'insorgente procedesse all'analisi (totalmente legale) dei logfiles disponibili e richiamasse all'ordine il suo dipendente. Non avendolo fatto, esso non può pretendere che il suo interesse all'accertamento della verità materiale prevalesse su quello dell'opponente a tutela della propria personalità. Nel ritenere dunque inutilizzabile il mezzo di prova offerto dalla ricorrente, il Tribunale cantonale amministrativo non ha commesso una violazione del diritto alla prova ( art. 29 cpv. 2 Cost. ). Né, in assenza di specifica allegazione ricorsuale in tal senso, mette conto di esaminare in questa sede se il divieto di utilizzare prove illecite potesse nondimeno, se del caso, preservare eventuali ammissioni rese dall'opponente in sede amministrativa sulla base della contestata sorveglianza (sul tema dell'effetto indiretto dei mezzi di prova acquisiti in modo illecito cfr. DTF 138 IV 169 consid. 3.3.1-3.3.3 pag. 172 seg.; DTF 137 I 218 consid. 2.4 pag. 225 seg.).

7.

7.1 Posta l'inutilizzabilità della perizia A. e delle sue risultanze, viene a cadere, come ha pertinentemente rilevato la Corte cantonale, il fondamento stesso del licenziamento disciplinare perché la violazione dei doveri di servizio contestata non è stata provata. Il ricorrente, che per giunta si limita in parte a rinviare genericamente ai " doc. agli atti, in part. (d)a quelli richiamati " per sostenere in maniera inammissibile - anche perché non spetta al Tribunale federale sopperire all'obbligo di diligenza delle parti e cercare nel voluminoso fascicolo i passaggi e le dichiarazioni a sostegno della tesi ricorsuale (cfr. ad es. sentenza 9C_369/2011 del 3 febbraio 2012 consid. 3.5) - una diversa versione dei fatti, non spiega infatti in quale misura l'accertamento dei primi giudici in merito alla mancanza - in 24 anni di servizio e fatta astrazione dall'ammonimento pronunciato nel 2003 per tutt'altra questione - di altri particolari momenti di demerito e alla tardiva, poiché successiva alla decisione di destituzione, oltre che generica contestazione di un non meglio specificato disinteresse per il lavoro sarebbe insostenibile o contrario al diritto. Non occorre perciò esaminare oltre se l'impiego degli strumenti informatici per attività private sul posto di lavoro nella misura rilevata dalla perizia A. potesse effettivamente giustificare un licenziamento
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con effetto immediato (sul tema cfr. però, per il contratto di lavoro di diritto privato, la sentenza 4C.349/2002 del 25 giugno 2003 consid. 5).

7.2 Giova nondimeno rilevare, insieme alla Corte cantonale, che anziché attendere che la situazione si trascini e si aggravi inutilmente, il datore di lavoro, prima di adottare direttamente un siffatto drastico provvedimento, dovrebbe, una volta accertato (con mezzi legali) l'abuso - di per sé, in un caso normale, assimilato a una mancanza di minore importanza (cfr. HOLENSTEIN, op. cit., pag. 160) - nell'utilizzo degli strumenti informatici, intervenire tempestivamente presso il dipendente e ammonirlo per dargli la possibilità di correggere questo suo comportamento, essendogli per il resto riservata la possibilità di bloccare l'accesso a Internet di quest'ultimo e di chiedergli il risarcimento per l'eventuale danno subito (cfr. in questo senso anche HOLENSTEIN, op. cit., pag. 160 seg. e Guida IFPDT, pagg. 28 e 39, secondo i quali un licenziamento immediato può invece giustificarsi unicamente se, nonostante l'ammonimento e la comminatoria di licenziamento in caso di recidiva, il dipendente persiste nel suo comportamento abusivo o se altrimenti commette un reato penale; v. pure TOBLER/FAVRE/MUNOZ/EHM, Arbeitsrecht, 2006, n. 1.26 ad art. 337 CO ). Sennonché, come ha accertato senza il benché minimo arbitrio la Corte cantonale, il consorzio ricorrente non ha mai in precedenza ammonito l'opponente in relazione all'uso improprio ora contestatogli del personal computer aziendale (più in generale, sull'opportunità, anche nel diritto della funzione pubblica, in analogia a quanto stabilito nel diritto privato, di fare precedere, quantomeno in caso di mancanze di lieve o media gravità, un licenziamento immediato da uno o più avvertimenti cfr. sentenza 8C_596/2009 del 4 novembre 2009 consid. 5.3 con riferimenti).

7.3 Contrariamente a quanto pretende il ricorrente, con l'annullamento della decisione di destituzione il Tribunale cantonale amministrativo non si è illecitamente sostituito al potere di apprezzamento dell'autorità amministrativa. Se è pur vero che quest'ultima dispone di un largo margine di apprezzamento per stabilire la sanzione disciplinare maggiormente appropriata, ciò non toglie che tale potere dev'essere esercitato entro i limiti tracciati dal principio di proporzionalità (cfr. ad es. sentenza 8C_203/2010 del 1° marzo 2011 consid. 3.5). Orbene, nel qualificare, alla luce della situazione probatoria esistente, eccessiva la misura della destituzione, i giudici cantonali si sono limitati ad applicare il principio della proporzionalità e a
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riesaminare (liberamente) il diritto. Non si può dunque rimproverare loro di avere abusato del potere di apprezzamento e di avere proceduto a un esame (vietato) di opportunità (cfr. sul tema anche sentenze 8C_165/2010 del 18 ottobre 2010 consid. 6.2-6.2.5 e 2P.363/1996 del 31 gennaio 1997 consid. 3a). Né per il resto e per gli argomenti sopra sviluppati la Corte cantonale, nel correggere la valutazione delle autorità precedenti, ha altrimenti arbitrariamente applicato il principio di proporzionalità (cfr. DTF 134 I 153 consid. 4.3 pag. 158, secondo cui se esamina il diritto cantonale separatamente dall'ingerenza in un diritto fondamentale, il Tribunale federale non riesamina liberamente l'osservanza del principio della proporzionalità, ma solo sotto il profilo dell'arbitrio). D'altronde, chiamato a pronunciarsi su una misura di destituzione - che arreca grave pregiudizio ai diritti del funzionario - il giudice non può limitarsi a prendere atto dell'opinione dell'autorità secondo cui il rapporto di fiducia tra l'ente pubblico e il funzionario sarebbe irrimediabilmente compromesso perché questa conclusione in realtà consegue dalla ponderazione stessa degli interessi secondo il principio di proporzionalità (sentenza citata 2P.363/1996 consid. 3a).

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